Claudia Bianchi, Corriere della Sera del 12 settembre 2023
«Una filosofa ragiona sulle conseguenze del linguaggio d’odio: si attacca qualcuno non per quello che ha fatto, ma per quello che è. È anche così che, lentamente, nasce la violenza fisica
Usiamo il linguaggio per comunicare con gli altri, per descrivere quello che ci circonda, il mondo e gli esseri che lo abitano. Allo stesso tempo usiamo il linguaggio per mettere ordine nel flusso caotico e indistinto della realtà, dando nomi a oggetti e individui, collocandoli in categorie e in gruppi. Abbiamo l’impressione di non fare altro che fotografare una realtà – fisica o sociale – che ci è data: siamo abituati a pensare al linguaggio come a uno specchio, che riflette gli esseri umani e le loro caratteristiche, e gruppi di individui che esistono indipendentemente da noi, e che noi ci limitiamo a inventariare.
E tuttavia catalogare individui, nominare e mettere ordine nell’esperienza, e in particolare nell’esperienza sociale, lungi dall’essere una mera impresa descrittiva ha una straordinaria portata normativa. Le parole costruiscono mappe di senso che aiutano a navigare nella realtà sociale, ma insieme plasmano la nostra identità. Classificazioni ed etichette (anche le più banali, quelle apparentemente più neutre, come uomo, donna, eterosessuale, omosessuale, bianco, nero, straniero, italiano) definiscono infatti quello che siamo e quello che possiamo diventare; ci dicono come vestirci, muoverci, comportarci; come amare e chi amare. Allo stesso tempo ci dicono quello che non siamo e non possiamo diventare; chi non possiamo amare. Nomi ed etichette vengono usati per normalizzare, giustificare e legittimare alcuni atteggiamenti, credenze, comportamenti, e per sanzionarne altri; sono gabbie che ci rinchiudono in identità indifferenziate, maschere che uniformano la nostra unicità, modi per sorvegliare e disciplinare.
Il linguaggio è dunque uno dei luoghi cruciali di esercizio del potere, e a volte di esercizio violento del potere. La dimensione normativa e di gestione sociale è tanto più evidente per quelle parole che usiamo per fare del male agli altri: insulti, parolacce, epiteti denigratori, bestemmie, maledizioni. Parole che popolano le nostre interazioni, reali o virtuali, infestano aggressioni verbali e attacchi online, corrompono il tifo sportivo e lo scontro politico, si accompagnano a pratiche di discriminazione e di violenza, fino a fomentare massacri e genocidi. Parole che racchiudono giudizio, derisione, disprezzo, e rappresentano modi per condannare certi individui e certi gruppi, certi comportamenti o certi affetti. In filosofia chiamiamo linguaggio d’odio o discorsi d’odio quelle interazioni discorsive volte a causare danno a gruppi sociali, e a singoli solo in quanto appartenenti a un particolare gruppo sociale; quelle forme espressive ostili e offensive indirizzate verso individui non in virtù di qualcosa che hanno fatto, quanto piuttosto in virtù di qualcosa che sono – in virtù cioè di certi loro tratti sociali (reali o percepiti), come razza, etnia, nazionalità, religione, genere, orientamento sessuale, disabilità, e così via. Si tratta della dimensione sociale dell’aggressione verbale, delle espressioni d’odio rivolte da gruppi sociali nei confronti di altri gruppi sociali; del modo con cui costruiamo o rafforziamo gerarchie e asimmetrie; del modo per odiare in gruppo, o in branco. Dietro alle molteplici definizioni e analisi del linguaggio d’odio, possono essere identificati due sensi distinti, cristallizzati in due metafore. In un primo, ovvio, senso le parole d’odio sono pietre: aggressioni dirette a individui, gruppi, comportamenti considerati distanti ed estranei, forme di violenza verbale che troppo spesso evocano e alludono alla violenza fisica. In un secondo senso, meno scontato, le parole d’odio sono lenti, che deformano il nostro sguardo su individui, gruppi, comportamenti. Chi le utilizza fa, più o meno consapevolmente, opera di proselitismo, invita cioè ascoltatori e astanti a condividere una certa prospettiva (offensiva, denigratoria, discriminatoria) sui bersagli dell’odio. Le parole d’odio sono strumenti con cui credenze e condotte discriminatorie vengono presentate come giustificate, diffuse, normali; individui e gruppi vengono posizionati su una ingiusta scala sociale, e i loro tratti, comportamenti o affetti censurati e a volte de-umanizzati.
Il linguaggio razzista, omofobico o sessista non è così solo un modo per colpire e ferire individui percepiti come estranei, ma è anche una forma di propaganda, un modo per affermare una certa visione sociale, culturale e politica, per presentare certe identità come appropriate e stigmatizzarne altre – uno strumento insidioso di controllo sociale.»