Giovedì 6 settembre il Maffei ha avuto, come ospiti, le prof.sse Maria G. Lo Duca e Saeda Pozzi.

Maria G. Lo Duca è stata ordinaria di Lingua italiana e di Didattica dell'italiano all'Università di Padova. È autrice di volumi e saggi.

Saeda Pozzi è stata insegnante nelle scuole secondarie: ha una lunga esperienza nei campi della formazione  e della ricerca didattica nell’ambito dell’educazione linguistica

Alla presenza di un pubblico di docenti attente e interessate, è stata l'occasione,  per la prof.ssa Lo Duca, di presentare in anteprima assoluta la sua ultima fatica, "Il dizionario di base della grammatica italiana" , di imminente uscita.

L'incontro è stato pensato come una intervista alla prof.ssa Lo Duca da parte della prof.ssa Pozzi, intervista che riportiamo di seguito.

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1) Perché hai scritto un dizionario di grammatica italiana? E perché lo hai definito “di base”? Ovvero quale è lo scopo dell’opera?

Alla base della decisione ci sono due motivazioni forti.

La prima: ho insegnato per molti anni Lingua Italiana e Didattica dell’italiano all’Università di Padova, e in tanti anni ho avuto modo di accertare la scarsa, scarsissima formazione grammaticale degli studenti frequentanti i corsi di laurea in Lettere e Lingue. Ci sono delle indagini (mie e di altri ricercatori, relative anche ad altri Atenei) su questo tema, e i risultati sono davvero scoraggianti, la confusione tra i concetti grammaticali è massima, come pure l’incertezza nel denominarli. Non si può mai essere sicuri, dicendo “verbo intransitivo” o “forma passiva” che gli studenti capiscano di che cosa si sta parlando. La sensazione sconfortante che ho provato, anno dopo anno, era quella di dover ricominciare tutto da capo, a partire dai concetti più elementari, di base, appunto, della disciplina.

La seconda: da sempre mi occupo di formazione degli insegnanti, sia come socia veterana del GISCEL Veneto, sia per la mia stessa formazione. Sono stata insegnante alle medie e al liceo scientifico per circa venti anni, e il mio legame con la scuola è stato sempre molto forte, non si è mai interrotto. Come docente universitaria, ho mandato decine di laureandi dei corsi di laurea in Lettere e Linguistica nelle scuole, a intervistare gli studenti, a parlare con gli insegnanti. Ho raccolto molti dati, alcuni dei quali sono confluiti in un libro dedicato alla scuola primaria. Ho insegnato alla SISS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) del Veneto nei 10 anni in cui le SISS hanno funzionato. Ho tenuto, un po’ dappertutto in Italia, corsi di formazione e aggiornamento sulla grammatica dell’italiano, fatti su invito di Università, Istituzioni, Dipartimenti e singole scuole.

Questa lunga esperienza sul campo mi ha convinto di una cosa: che è difficile parlare e discutere di qualsivoglia oggetto (nel nostro caso di grammatica) se non si condividono le parole per parlarne e, soprattutto, se non si condivide il significato, il senso che noi diamo a quelle parole: siamo sicuri che dicendo frase o enunciato, pronome o complemento stiamo pensando alla stessa cosa? In tante circostanze diverse mi sono accorta che la mia terminologia non collimava in tutto e per tutto con la terminologia in uso a scuola, anche se usavamo e usiamo gli stessi termini. Insomma, se, facendo una lezione di grammatica, uso la locuzione “presente indicativo” o “frase completiva” o “frase minima”, tanto per stare nei limiti di termini che circolano abbondantemente nelle scuole, devo essere sicura che io e i miei interlocutori intendiamo esattamente la stessa cosa. Altrimenti il rischio del fraintendimento è altissimo.

Non parliamo poi dei termini più “esotici”, nel senso di moderni, introdotti da relativamente poco tempo nel dibattito grammaticale: termini come deissi ed elemento deittico, sintagma e testa del sintagma, espansione o circostanziale, connettivo, catena anaforica, tema o topic. Qui i rischi di incomprensione o malinteso sono enormi, e alcuni errori si sono infatti stabilmente radicati nei libri di testo per le scuole.

In conclusione (e qui cito direttamente dall’Introduzione, p. 9) “Lo scopo del volume è dunque duplice: 1) fare chiarezza – nei limiti imposti dalla mole volutamente contenuta di un agile strumento di consultazione – sui concetti cui quei termini rimandano, dunque descriverne gli ambiti d’uso e le eventuali sinonimie o parziali sovrapposizioni; 2) contribuire a individuare una terminologia minima, di base e possibilmente condivisa della disciplina”.

Quanto alla domanda perché ho chiamato “di base” questo dizionario, la risposta è semplice:  perché i termini della grammatica sono moltissimi se contiamo, oltre ai termini comunemente in uso, anche i termini del passato, ormai caduti in disuso; o i termini di nuova coniazione, che designano concetti grammaticali ancora in fase di definizione e oggetto di dibattito fra i teorici; o i termini di altre tradizioni grammaticali, che servono a descrivere altre lingue (ad esempio, per la categoria del numero, l’italiano ha solo il singolare e il plurale, ma ci sono lingue che hanno il duale, il triale, il paucale). Tutti questi termini, ovviamente, non sono elencati. Mi sono limitata ad elencare i termini che, sulla base dei miei studi, ho ritenuto necessari e sufficienti a parlare con precisione e il giusto rigore delle forme e della struttura della lingua italiana, senza rincorrere l’ultima novità teorica. Con la speranza che questa base comune possa essere utile anche al confronto con le altre lingue, classiche o moderne, che uno studente o un docente avranno la ventura di incontrare.

2) Quali sono i punti di riferimento dell’opera? E saremmo curiosi di sapere come evolve la disciplina. Esiste una dinamica dei concetti e delle parole della grammatica?

Sulla grammatica dell’italiano esiste una imponente letteratura che ha costituito il punto di riferimento imprescindibile di quest’opera: da una parte le grammatiche di consultazione, le opere di impianto generale che in questi ultimi decenni hanno descritto in modo egregio la nostra lingua; dall’altra le opere più specifiche, centinaia, migliaia di saggi, più o meno voluminosi, che hanno approfondito questo o quel settore della grammatica dell’italiano, o anche singoli fenomeni. Di questa ampia letteratura si dà conto nella bibliografia. Come scrivo nell’Introduzione “è questo il terreno da cui è germogliato questo testo, un terreno fondamentalmente descrittivo, con esclusione, quindi, delle opere e dei saggi più teorici, dove le scelte di campo si fanno troppo nette e gli apparati formali troppo tecnici ed esclusivi. L’intento è dunque quello di tentare una sintesi, così come è possibile allo stato attuale degli studi, ad uso di un pubblico più vasto, per offrire uno strumento che aiuti il lettore a mettere a fuoco i concetti e a memorizzare i termini che li richiamano” (p. 10).

Quanto alla seconda parte della tua domanda, se esiste una dinamica interna dei concetti e delle parole della grammatica... certo che sì: “in grammatica, come in tutte le discipline, i concetti e le parole che li designano sono continuamente sottoposti a verifica, e dunque possono cambiare in modo più o meno radicale. Addirittura nuovi oggetti linguistici, mai considerati prima, possono emergere dalle investigazioni dei ricercatori [...] Una volta individuato, un oggetto linguistico va denominato. Dunque nessuna meraviglia se l’evoluzione della disciplina, particolarmente vivace nell’ultimo secolo, ha comportato che, perfino rispetto agli anni della prima formazione grammaticale di molti di noi, siano comparsi e si siano imposti dei termini nuovi” (p. 10).

Ma sia chiaro: il grosso dei termini grammaticali viene dalla tradizione greco-romana, assunti nell’insegnamento e giunti fino a noi. L’investigazione moderna continua ad usarli, anche se il più delle volte li ridefinisce, spesso mettendo in discussione le definizioni cui tutti siamo abituati, e introducendo nuove distinzioni. Per convincersene farò solo un esempio, leggendo con voi la voce sul Presente indicativo (pp. 195-197 del Dizionario). Come vedete, la ricerca è andata avanti rispetto a 30/40 anni fa, e continuerà ad andare avanti. Ma per adesso siamo a questo punto.  

3) Quali sono i destinatari del lavoro? A quale pubblico ti rivolgi?

Ho già in parte anticipato questa domanda, ma riprendo alcuni passi dall’ Introduzione: “A questo punto dovrebbe risultare chiaro qual è il pubblico a cui il testo si rivolge. Nello scriverlo ho pensato prima di tutto allo studente universitario di lettere e lingue, il quale, dopo la lunga vacanza grammaticale rappresentata dal triennio delle superiori, o addirittura dall’intero ciclo delle superiori, si trova a volte (e questo nei casi fortunati in cui un esame universitario preveda la materia grammaticale) alle prese con opere molto impegnative, giustamente previste dai piani di studio e assolutamente necessarie alla sua formazione. Ma per chi non ricordi più – e questo, ahimè, accade – che cos’è un verbo intransitivo o un avverbio o una frase soggettiva, diventa difficile raccapezzarsi.

Ho pensato anche al docente di italiano e di lingue, classiche e moderne, di ogni ordine e grado, che non abbia ricevuto le giuste informazioni grammaticali al momento della formazione universitaria, e che senta la necessità di ritrovare rapidamente il significato di un termine frequentato in anni ormai lontani, o addirittura mai incontrato prima. Penso soprattutto ai tanti neologismi grammaticali che la linguistica moderna ha avuto necessità di introdurre, talvolta assunti e usati in modo maldestro nei libri scolastici, che il docente dovrebbe essere in grado di maneggiare senza incertezze” (p. 11). Per quest’ultimo tipo di pubblico, spero che possa risultare utile l’opera di chiarificazione che mi sono sforzata di fare, riportando fra parentesi i termini sinonimi, usati da autori diversi per designare lo stesso oggetto linguistico, come nel caso di categorie lessicali (o classi di parole, o parti del discorso); subordinazione (o ipotassi); subordinata, frase (o f. dipendente, o f. secondaria); argomentale, frase (o f. completiva, o f. subordinata nucleare), e così via.

Queste sinonimie “sono una delle difficoltà della grammatica moderna: i diversi autori, facendo riferimento a modelli teorici in tutto o in parte diversi, a volte designano gli stessi concetti con termini differenti, il che genera sconcerto e dubbi nei non linguisti”.

4) In questi casi, quale criterio ti ha guidato nella scelta di mettere a lemma un termine piuttosto che un altro?

Per rispondere farò l’esempio di espansione, termine che è stato scelto e messo a lemma a preferenza di altri, i quali sono elencati tra parentesi subito dopo e che sono, in ordine alfabetico, aggiunto, avverbiale, circostante, circostanziale, extranucleare, margine. Questi termini “indicano tutti un elemento non obbligatorio nella frase [...] Ma perché espansione? Fondamentalmente per due motivi: per la trasparenza del suo significato (rispetto, poniamo, a circostanziale o avverbiale), e per la sua buona diffusione in ambito scolastico, dove peraltro viene spesso usato a sproposito, come sinonimo più moderno di complemento. Naturalmente è una scelta opinabile: l’importante però è che il lettore sia avvertito che tutte le alternative, date fra parentesi, sono possibili, in quanto designano lo stesso oggetto linguistico, e potrebbero a buon diritto essere usate al posto di espansione da questo o quell’autore” (p. 14). Perché, come scrive il linguista Giorgio Graffi (in Introduzione alla sintassi, Carocci, Roma, 2021, pp. 170-171) “è bene ricordare che ogni scelta terminologica è convenzionale: non c’è nulla in natura che imponga di essere chiamato con un dato nome [...] in quanto la scelta di una determinata terminologia è semplicemente frutto di nostre convenzioni”.

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(dalla presentazione della prof.ssa Lo Duca)

Dunque i criteri seguiti nella scelta dei termini da mettere a lemma sono fondamentalmente due: la condivisione e la trasparenza, intesa quest’ultima come più facile comprensibilità del termine prescelto da parte del pubblico cui questo testo si rivolge. La combinazione di questi due criteri ha portato alla scelta di troncamento piuttosto che di apocope, di subordinazione piuttosto che di ipotassi, di ruoli semantici piuttosto che di ruoli tematici, di verbi causativi piuttosto che di verbi fattitivi, e così via.

5) Un’ultima domanda sulla diacronia: ci sono informazioni sulla storia e l’evoluzione dei concetti grammaticali, e delle parole che sono state usate per designarli?  

No, nel trattamento delle voci non si fa cenno alla diacronia, cioè alla evoluzione dei concetti grammaticali nella grammaticografia sull’italiano: tener conto di questo aspetto avrebbe comportato un ampliamento a dismisura della ricerca, e conseguentemente della mole del volume. Ma approfitto della tua domanda per ricordare che molti termini grammaticali hanno alle spalle una lunga, lunghissima storia.

Riprendo dall’Introduzione: “la grammatica, ciò che nel mondo occidentale si intende per grammatica, ha una storia millenaria che si fa partire dal grammatico alessandrino Dionisio Trace, che, all’incirca intorno al 100 a.C., pubblicò il primo trattato di grammatica, la Téchne grammatiké. In quest’opera presenta otto diverse parti del discorso, che corrispondono in gran parte alla suddivisione moderna. Ma già prima di lui (principalmente con Platone e Aristotele) e soprattutto dopo di lui, filosofi e grammatici non hanno mai smesso di riflettere sul linguaggio verbale e sulla sua struttura. Anche gli oggetti linguistici, e relative denominazioni, che a noi oggi paiono ovvi, sono in realtà il frutto di un lungo percorso di successiva chiarificazione, durante il quale al cambio di analisi si è accompagnato talvolta il cambio del nome. Per fare un esempio arcinoto, la categoria dell’aggettivo è stata a lungo vista e trattata come sottoclasse del nome, e infatti fino a tutto l’Ottocento si parla di nome aggettivo, per distinguerlo dal nome sostantivo, che indicava, appunto, quello che oggi viene chiamato semplicemente nome o sostantivo” (p. 17). Ancora Raffaello Fornaciari, nella sua fortunata Grammatica della lingua italiana (Sansoni, Firenze 1931, p. 36), nel fare l’elenco delle categorie lessicali scrive: “nome sostantivo (o semplicemente sostantivo o nome), nome aggettivo (o semplicemente aggettivo)”.

“Questo esempio ci ricorda che spesso l’oggetto linguistico, con la relativa terminologia, è “emerso” faticosamente in seguito a piccoli o grandi mutamenti di prospettiva [...] Il frutto di questo lavorio secolare, condotto prima sul greco e sul latino, poi sulle lingue moderne, è stato ereditato e assunto nell’insegnamento, giungendo fino a noi. Dunque un gran numero di voci viene da qui, da quella che viene talvolta sbrigativamente – e spesso polemicamente – chiamata grammatica tradizionale, cui pure dobbiamo tante delle categorie di base dell’analisi linguistica, e le rispettive denominazioni” (p. 17).

 

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